Paolo
Restuccia, “La stretegia del tango”, Gaffi, 2015
"Questo esordio narrativo di Paolo Restuccia, "La strategia del tango", è un giallo atipico di ambientazione militare nel quale un colonnello degli Alpini, Ettore, si trova a ficcare il naso, inizialmente quasi controvoglia e poi trascinato da una sorta di "horror vacui", su un intrico di corruzione e criminalità con scabrosi addentellati nel mondo della politica romana. Ettore è ben lungi dall'essere un puro, cioè un eroe a tutto tondo, è piuttosto un cinquantenne disincantato e vagamente disgustato da se stesso e dal mondo, appassionato di danza, che condisce i suoi ragionamenti con motti improntati al sarcasmo e al paradosso, declinati nei vari dialetti italici origliati nelle tante caserme della penisola che ha frequentato. Semifallito nella carriera militare, innamorato di una ragazza di 23 anni che rappresenta in qualche modo la sua (illusoria) utopia di purezza e di riscatto, l'alpino (così viene ironicamente chiamato per tutto il libro) registra la mortifera e bruta realtà che lo circonda con una lucida spietatezza che a momenti sfocia in esplosioni di amara e grottesca comicità". (Dalla prefazione di Andrea Carraro)
Intervista
di Daniele Cambiaso
Talvolta ci si chiede se
il giallo, il noir, il thriller e le varie altre sottocategorie di
quella che Giulio Leoni, con mirabile sintesi, ha definito la
“letteratura della tensione” non abbiano già detto tutto,
raccontato tutto ciò che si poteva e doveva raccontare, se esistano
ancora zone inesplorate da scandagliare. A giudicare da ciò che i
grandi marchi editoriali vanno proponendo e imponendo sugli scaffali
delle librerie sembrerebbe che ormai ci si avvii a una stanca replica
di situazioni e personaggi già apprezzati, in una stucchevole
ricerca del consenso di cassetta. Poi, capita di leggere un romanzo
come “La strategia del tango” di Paolo Restuccia e le carte si
sparigliano.
Un “giallo atipico”, è
stato definito, e certo lo è. A partire dal protagonista, Ettore
Galimberti, un ufficiale degli Alpini tagliato fuori da ogni
prospettiva di carriera, un puro, un idealista che si trova a
indagare sulla morte misteriosa di un amico e si scontra col
groviglio di menzogne e bassezze che lastricano le strade del potere,
fino a uno sconvolgente epilogo di cui nulla, rigorosamente,
anticiperemo. Al suo fianco Giulia too hot
Tosca, la donna che Galimberti ama, molto più
giovane di lui, graffitara, selvaggia, libera.
Una coppia insolita e un
delitto? Non solo. C’è moltissimo di più. Grazie a Ettore e
Giulia, pagina dopo pagina non si scava solo alla ricerca della
verità di un delitto “di carta”, ma ci si interroga e si
riflette su noi stessi, sulla realtà che stiamo vivendo, sui
meccanismi che ci guidano invisibili. “La strategia del tango” si
rivela, in definitiva, uno di quei romanzi che offrono una
molteplicità di livelli di lettura senza peraltro che la
scorrevolezza e il ritmo ne risentano per un solo istante, grazie a
una scrittura raffinata e accattivante. È uno di quei romanzi che
arricchiscono, una esordio letterario da non perdere per chi cerchi
una nuova voce nel panorama della narrativa italiana.
“Atmosfere letterarie”
è lieto di poterne parlare con l’Autore…
…e proprio da lui
partiamo. Chi è Paolo Restuccia e come è approdato alla scrittura?
Sei noto al grande pubblico soprattutto per la tua attività di
giornalista alla Rai e per la trasmissione “Il ruggito del
coniglio”, ma a quanto pare questa è solo la punta di un ricco
iceberg…
Difficile definirsi.
Diciamo che sono un incostante dai tempi lunghi visto che questo
romanzo ha avuto una gestazione di molti anni. Alla scrittura sono
arrivato attraverso il piacere della lettura, piacere iniziato così
presto nella mia vita che i miei primi ricordi reali si mescolano con
immagini di storie romanzesche, ma penso di non essere l’unico, no?
Ed è un piacere che continua nel tempo perché prima di essere una
persona che racconta storie attraverso la scrittura sono e resto uno
a cui piace ascoltarle. Poi c’è stata e c’è sempre la magnifica
avventura della Scuola Omero, che è soprattutto un luogo dove si
confrontano editor letterari e scrittori che stanno cercando la
propria strada nella via della narrativa e vogliono avere risposte
sui propri testi. Si dicono un sacco di stupidaggini sulle scuole di
scrittura, la mia esperienza dalla fine degli anni Ottanta a oggi è
che non ci sono formule facili, non ci sono regole da insegnare, ma
può servire a tutti un contenitore di riflessioni comuni che faccia
incontrare autori affermati e scrittori del futuro. Non è sempre
stato così, nei circoli e nelle riviste culturali, finché sono
esistite davvero.
Perché hai scelto il
giallo? Quali sono i tuoi autori di riferimento, fuori e dentro il
genere?
Quando ho cominciato a
scrivere il romanzo volevo raccontare l’avventura di uomo più o
meno onesto, come la maggioranza di noi, alle prese con un mondo di
veri corrotti che vivono accanto a lui senza che quasi se ne accorga.
Era una storia di morte e potere di tipo scespiriano. Però tutto
cominciava con un suo amico ammazzato e la storia ha preso da subito
la via di una sorta d’inchiesta, quindi ecco che si è infilata nel
genere giallo da sola. C’è da dire che io ho letto molti gialli,
alcuni con grande piacere. Non mi sono lasciato scappare praticamente
tutto Simenon e certamente tutta Agatha Christie, tra i classici.
Tutto Holmes ovviamente e poi Nero Wolfe e Hammet, ho avuto una
passione esclusiva di qualche tempo felice con il grande Raymond
Chandler e qualche anno fa mi dividevo tra il primo Carofiglio e il
secondo Lucarelli. Ho amato davvero Ellroy quando ha scritto romanzi
come “Dalia nera”, “Il grande nulla”, “L.A. Confidential”,
“American Tabloid” e “Sei pezzi da mille”.
Veniamo al
protagonista: chi è e come nasce Galimberti, questo strano ufficiale
che non ama la grappa, adora il ballo e si innamora di una donna di
ventitré anni più giovane di lui? Ti sei ispirato a qualche figura
reale?
Sì, ho incontrato più di
un militare che sembrava interpretare ai miei occhi da giovane
antimilitarista lo stereotipo del soldato, un po’ troppo quadrato,
quasi ottuso. Ma quando li conoscevo meglio mi accorgevo che erano
molto diversi, c’era chi ballava il tango, chi era di sinistra e
democratico, chi era di destra ma davvero leale e leggeva libri
insospettabili. Galimberti mette insieme alcuni di loro e alcuni
frammenti di come sono io. Poi c’è un colonnello in carne ed ossa
che potrebbe essersi riconosciuto direttamente nel personaggio.
Altra figura centrale è
Tosca, la ragazza che affianca Galimberti in questa difficile
indagine. È una donna che sfugge a ogni classificazione, pura e
ribelle ma altrettanto fragile…
È stato il personaggio
che ho immaginato più facilmente, senza nessuno sforzo, ed ha retto
senza grandi cambiamenti, secondo me, anche in questi anni in cui il
romanzo è stato in scrittura, perché fortunatamente c’è sempre
intorno a noi una ragazza come Giulia. Ci saranno sempre alcune
giovani donne che lottano naturalmente per non essere intrappolate
dentro i limiti degli stereotipi più banali. Questo le rende più
insofferenti di fronte all’ipocrisia, più decise contro quelle che
ritengono ingiustizie, e direi anche più intelligenti.
Potremmo definire il
tuo romanzo un apologo sul potere? Tra l’altro hai praticamente
anticipato gli eventi di “Mafia capitale”…
Apologo sul potere è una
definizione che mi piace molto. Partivo dal presupposto che i
meccanismi del potere non cambiano mai e infatti nel romanzo compare
un dipinto di Holbein, quello di Enrico VIII, il re inglese che è
forse il simbolo più evidente di un sovrano che fa ciò che vuole
per il potere, uccide gli amici, si libera delle sue mogli, si
scontra con il Papa, arriva perfino a fondare un’eresia e inventare
una religione statale di cui diventa il capo, con il consenso più o
meno esplicito e spontaneo dei suoi sudditi.
Roma non è diversa da
Londra e oggi non è diverso da ieri, al di là dei particolari
eventi storici. Quando cominci a ragionare così e metti insieme dei
fatti che potrebbero accadere, poi ti vengono in mente dei personaggi
che potrebbero comportarsi in un certo modo, allora può succedere
che la tua storia cominci a somigliare moltissimo alla realtà. Una
cosa che mi ha colpito davvero è che io avevo scritto una storia che
prevedeva una corruzione di assessori e quando mi sono chiesto cosa
potesse essere al centro della vicenda, ho pensato che potesse essere
l’acquisto di autobus. Qualche tempo dopo proprio sugli autobus c’è
stata una inchiesta con denunce e processi. Sulla vicenda di “Mafia
Capitale”, invece, io ho proprio pensato che i vecchi compagni e
camerati, abituati agli scontri di piazza e magari anche alla
criminalità, potessero essere sempre in contatto con i loro amici di
un tempo che avevano fatto carriera in politica. E ho scritto una
storia in cui un gruppo politico che vuole conquistare soldi e potere
si serve di nuovi e vecchi compagni per fare il cosiddetto lavoro
sporco. Adesso sembra banale, ma prima di queste ultime inchieste
pareva davvero impossibile che un ex terrorista e criminale come
Carminati potesse avere rapporti di affari con politici che sedevano
in consiglio comunale, o che il responsabile di una cooperativa come
Buzzi potesse essere una persona tanto integrata in un sistema
criminale che coinvolgeva uomini politici di spicco.
Linguisticamente
alterni registri assai diversi in una miscela sapiente che coinvolge
anche i dialetti. Quanto hai lavorato su questo aspetto e perché hai
inserito anche i dialetti?
Ettore Galimberti ha una
caratteristica particolare: si imbeve degli ambienti in cui vive e
risente di quelli che ha frequentato. Come soldato ha girato l’Italia
e non solo, così gli restano nel linguaggio modi di dire e accenti
di tutti i luoghi che ha conosciuto. Inoltre mentre scrivevo la
storia l’italiano mi stava stretto. Sentivo intorno a me, anche da
parte degli ascoltatori che chiamavano le radio, espressioni efficaci
e colorite, perfette per indicare quello che volevo dire, allora le
infilavo nel testo. L’italiano è una lingua bellissima ma ancora
poco parlata nella vita di tutti i giorni. Resta sempre un po’
scolastica, una lingua giovane che sembra quasi sempre, soprattutto
nei libri, una lingua da traduttori, invece i dialetti sono ricchi e
fertili, integrati con naturalezza nel parlare comune ci
restituiscono il modo di esprimersi dei nostri giorni. Non solo i
dialetti, anche le lingue straniere, gli apporti dai media, certe
volte orribili e destinati a sparire presto, compongono il modo in
cui parliamo oggi.
Quali
prospettive vedi per la “narrativa di tensione” e per la
narrativa italiana in genere? Puoi anticiparci qualcosa sui tuoi
nuovi progetti?
La “narrativa di
tensione” può entrare in crisi solo se eccede nella ripetitività,
perché i lettori comunque vogliono un certo tipo di storie costruite
in quel certo modo, ma cercano anche delle novità in questo modello
già conosciuto e amato. La narrativa italiana, invece, è sempre sul
punto di rinunciare proprio alla narrativa, cioè all’idea di
raccontare la realtà attraverso storie d’invenzione (o fiction
come dicono gli inglesi e gli americani) per dedicarsi solo alla
biografia e all’autobiografia letteraria (o auto fiction) o al
reportage più o meno d’autore e al saggio (generi che poi
ricoprono quasi tutta l’area della cosiddetta no fiction). Io
quando trovo un bel romanzo sono felice.
Per quanto mi riguarda,
qualcuno mi chiede di poter leggere altro del tenente colonnello
Ettore Galimberti, e questo è il riflesso naturale dei lettori di
genere, quando hanno scoperto un personaggio e gli è piaciuto, ne
vogliono di più. Io intanto rimango qui chiotto chiotto e continuo a
scrivere lemme lemme.
Nessun commento:
Posta un commento