lunedì 27 luglio 2015

"La strategia del tango" di Paolo Restuccia - Gaffi Editore - Con intervista all'autore. A cura di Daniele Cambiaso




Paolo Restuccia, “La stretegia del tango”, Gaffi, 2015

"Questo esordio narrativo di Paolo Restuccia, "La strategia del tango", è un giallo atipico di ambientazione militare nel quale un colonnello degli Alpini, Ettore, si trova a ficcare il naso, inizialmente quasi controvoglia e poi trascinato da una sorta di "horror vacui", su un intrico di corruzione e criminalità con scabrosi addentellati nel mondo della politica romana. Ettore è ben lungi dall'essere un puro, cioè un eroe a tutto tondo, è piuttosto un cinquantenne disincantato e vagamente disgustato da se stesso e dal mondo, appassionato di danza, che condisce i suoi ragionamenti con motti improntati al sarcasmo e al paradosso, declinati nei vari dialetti italici origliati nelle tante caserme della penisola che ha frequentato. Semifallito nella carriera militare, innamorato di una ragazza di 23 anni che rappresenta in qualche modo la sua (illusoria) utopia di purezza e di riscatto, l'alpino (così viene ironicamente chiamato per tutto il libro) registra la mortifera e bruta realtà che lo circonda con una lucida spietatezza che a momenti sfocia in esplosioni di amara e grottesca comicità". (Dalla prefazione di Andrea Carraro)


Intervista

di Daniele Cambiaso

Talvolta ci si chiede se il giallo, il noir, il thriller e le varie altre sottocategorie di quella che Giulio Leoni, con mirabile sintesi, ha definito la “letteratura della tensione” non abbiano già detto tutto, raccontato tutto ciò che si poteva e doveva raccontare, se esistano ancora zone inesplorate da scandagliare. A giudicare da ciò che i grandi marchi editoriali vanno proponendo e imponendo sugli scaffali delle librerie sembrerebbe che ormai ci si avvii a una stanca replica di situazioni e personaggi già apprezzati, in una stucchevole ricerca del consenso di cassetta. Poi, capita di leggere un romanzo come “La strategia del tango” di Paolo Restuccia e le carte si sparigliano.
Un “giallo atipico”, è stato definito, e certo lo è. A partire dal protagonista, Ettore Galimberti, un ufficiale degli Alpini tagliato fuori da ogni prospettiva di carriera, un puro, un idealista che si trova a indagare sulla morte misteriosa di un amico e si scontra col groviglio di menzogne e bassezze che lastricano le strade del potere, fino a uno sconvolgente epilogo di cui nulla, rigorosamente, anticiperemo. Al suo fianco Giulia too hot Tosca, la donna che Galimberti ama, molto più giovane di lui, graffitara, selvaggia, libera.
Una coppia insolita e un delitto? Non solo. C’è moltissimo di più. Grazie a Ettore e Giulia, pagina dopo pagina non si scava solo alla ricerca della verità di un delitto “di carta”, ma ci si interroga e si riflette su noi stessi, sulla realtà che stiamo vivendo, sui meccanismi che ci guidano invisibili. “La strategia del tango” si rivela, in definitiva, uno di quei romanzi che offrono una molteplicità di livelli di lettura senza peraltro che la scorrevolezza e il ritmo ne risentano per un solo istante, grazie a una scrittura raffinata e accattivante. È uno di quei romanzi che arricchiscono, una esordio letterario da non perdere per chi cerchi una nuova voce nel panorama della narrativa italiana.

“Atmosfere letterarie” è lieto di poterne parlare con l’Autore…



e proprio da lui partiamo. Chi è Paolo Restuccia e come è approdato alla scrittura? Sei noto al grande pubblico soprattutto per la tua attività di giornalista alla Rai e per la trasmissione “Il ruggito del coniglio”, ma a quanto pare questa è solo la punta di un ricco iceberg…

Difficile definirsi. Diciamo che sono un incostante dai tempi lunghi visto che questo romanzo ha avuto una gestazione di molti anni. Alla scrittura sono arrivato attraverso il piacere della lettura, piacere iniziato così presto nella mia vita che i miei primi ricordi reali si mescolano con immagini di storie romanzesche, ma penso di non essere l’unico, no? Ed è un piacere che continua nel tempo perché prima di essere una persona che racconta storie attraverso la scrittura sono e resto uno a cui piace ascoltarle. Poi c’è stata e c’è sempre la magnifica avventura della Scuola Omero, che è soprattutto un luogo dove si confrontano editor letterari e scrittori che stanno cercando la propria strada nella via della narrativa e vogliono avere risposte sui propri testi. Si dicono un sacco di stupidaggini sulle scuole di scrittura, la mia esperienza dalla fine degli anni Ottanta a oggi è che non ci sono formule facili, non ci sono regole da insegnare, ma può servire a tutti un contenitore di riflessioni comuni che faccia incontrare autori affermati e scrittori del futuro. Non è sempre stato così, nei circoli e nelle riviste culturali, finché sono esistite davvero.

Perché hai scelto il giallo? Quali sono i tuoi autori di riferimento, fuori e dentro il genere?

Quando ho cominciato a scrivere il romanzo volevo raccontare l’avventura di uomo più o meno onesto, come la maggioranza di noi, alle prese con un mondo di veri corrotti che vivono accanto a lui senza che quasi se ne accorga. Era una storia di morte e potere di tipo scespiriano. Però tutto cominciava con un suo amico ammazzato e la storia ha preso da subito la via di una sorta d’inchiesta, quindi ecco che si è infilata nel genere giallo da sola. C’è da dire che io ho letto molti gialli, alcuni con grande piacere. Non mi sono lasciato scappare praticamente tutto Simenon e certamente tutta Agatha Christie, tra i classici. Tutto Holmes ovviamente e poi Nero Wolfe e Hammet, ho avuto una passione esclusiva di qualche tempo felice con il grande Raymond Chandler e qualche anno fa mi dividevo tra il primo Carofiglio e il secondo Lucarelli. Ho amato davvero Ellroy quando ha scritto romanzi come “Dalia nera”, “Il grande nulla”, “L.A. Confidential”, “American Tabloid” e “Sei pezzi da mille”.



Veniamo al protagonista: chi è e come nasce Galimberti, questo strano ufficiale che non ama la grappa, adora il ballo e si innamora di una donna di ventitré anni più giovane di lui? Ti sei ispirato a qualche figura reale?

Sì, ho incontrato più di un militare che sembrava interpretare ai miei occhi da giovane antimilitarista lo stereotipo del soldato, un po’ troppo quadrato, quasi ottuso. Ma quando li conoscevo meglio mi accorgevo che erano molto diversi, c’era chi ballava il tango, chi era di sinistra e democratico, chi era di destra ma davvero leale e leggeva libri insospettabili. Galimberti mette insieme alcuni di loro e alcuni frammenti di come sono io. Poi c’è un colonnello in carne ed ossa che potrebbe essersi riconosciuto direttamente nel personaggio.

Altra figura centrale è Tosca, la ragazza che affianca Galimberti in questa difficile indagine. È una donna che sfugge a ogni classificazione, pura e ribelle ma altrettanto fragile…

È stato il personaggio che ho immaginato più facilmente, senza nessuno sforzo, ed ha retto senza grandi cambiamenti, secondo me, anche in questi anni in cui il romanzo è stato in scrittura, perché fortunatamente c’è sempre intorno a noi una ragazza come Giulia. Ci saranno sempre alcune giovani donne che lottano naturalmente per non essere intrappolate dentro i limiti degli stereotipi più banali. Questo le rende più insofferenti di fronte all’ipocrisia, più decise contro quelle che ritengono ingiustizie, e direi anche più intelligenti.



Potremmo definire il tuo romanzo un apologo sul potere? Tra l’altro hai praticamente anticipato gli eventi di “Mafia capitale”…

Apologo sul potere è una definizione che mi piace molto. Partivo dal presupposto che i meccanismi del potere non cambiano mai e infatti nel romanzo compare un dipinto di Holbein, quello di Enrico VIII, il re inglese che è forse il simbolo più evidente di un sovrano che fa ciò che vuole per il potere, uccide gli amici, si libera delle sue mogli, si scontra con il Papa, arriva perfino a fondare un’eresia e inventare una religione statale di cui diventa il capo, con il consenso più o meno esplicito e spontaneo dei suoi sudditi.
Roma non è diversa da Londra e oggi non è diverso da ieri, al di là dei particolari eventi storici. Quando cominci a ragionare così e metti insieme dei fatti che potrebbero accadere, poi ti vengono in mente dei personaggi che potrebbero comportarsi in un certo modo, allora può succedere che la tua storia cominci a somigliare moltissimo alla realtà. Una cosa che mi ha colpito davvero è che io avevo scritto una storia che prevedeva una corruzione di assessori e quando mi sono chiesto cosa potesse essere al centro della vicenda, ho pensato che potesse essere l’acquisto di autobus. Qualche tempo dopo proprio sugli autobus c’è stata una inchiesta con denunce e processi. Sulla vicenda di “Mafia Capitale”, invece, io ho proprio pensato che i vecchi compagni e camerati, abituati agli scontri di piazza e magari anche alla criminalità, potessero essere sempre in contatto con i loro amici di un tempo che avevano fatto carriera in politica. E ho scritto una storia in cui un gruppo politico che vuole conquistare soldi e potere si serve di nuovi e vecchi compagni per fare il cosiddetto lavoro sporco. Adesso sembra banale, ma prima di queste ultime inchieste pareva davvero impossibile che un ex terrorista e criminale come Carminati potesse avere rapporti di affari con politici che sedevano in consiglio comunale, o che il responsabile di una cooperativa come Buzzi potesse essere una persona tanto integrata in un sistema criminale che coinvolgeva uomini politici di spicco.

Linguisticamente alterni registri assai diversi in una miscela sapiente che coinvolge anche i dialetti. Quanto hai lavorato su questo aspetto e perché hai inserito anche i dialetti?

Ettore Galimberti ha una caratteristica particolare: si imbeve degli ambienti in cui vive e risente di quelli che ha frequentato. Come soldato ha girato l’Italia e non solo, così gli restano nel linguaggio modi di dire e accenti di tutti i luoghi che ha conosciuto. Inoltre mentre scrivevo la storia l’italiano mi stava stretto. Sentivo intorno a me, anche da parte degli ascoltatori che chiamavano le radio, espressioni efficaci e colorite, perfette per indicare quello che volevo dire, allora le infilavo nel testo. L’italiano è una lingua bellissima ma ancora poco parlata nella vita di tutti i giorni. Resta sempre un po’ scolastica, una lingua giovane che sembra quasi sempre, soprattutto nei libri, una lingua da traduttori, invece i dialetti sono ricchi e fertili, integrati con naturalezza nel parlare comune ci restituiscono il modo di esprimersi dei nostri giorni. Non solo i dialetti, anche le lingue straniere, gli apporti dai media, certe volte orribili e destinati a sparire presto, compongono il modo in cui parliamo oggi.

Quali prospettive vedi per la “narrativa di tensione” e per la narrativa italiana in genere? Puoi anticiparci qualcosa sui tuoi nuovi progetti?

La “narrativa di tensione” può entrare in crisi solo se eccede nella ripetitività, perché i lettori comunque vogliono un certo tipo di storie costruite in quel certo modo, ma cercano anche delle novità in questo modello già conosciuto e amato. La narrativa italiana, invece, è sempre sul punto di rinunciare proprio alla narrativa, cioè all’idea di raccontare la realtà attraverso storie d’invenzione (o fiction come dicono gli inglesi e gli americani) per dedicarsi solo alla biografia e all’autobiografia letteraria (o auto fiction) o al reportage più o meno d’autore e al saggio (generi che poi ricoprono quasi tutta l’area della cosiddetta no fiction). Io quando trovo un bel romanzo sono felice.
Per quanto mi riguarda, qualcuno mi chiede di poter leggere altro del tenente colonnello Ettore Galimberti, e questo è il riflesso naturale dei lettori di genere, quando hanno scoperto un personaggio e gli è piaciuto, ne vogliono di più. Io intanto rimango qui chiotto chiotto e continuo a scrivere lemme lemme.

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