Intervista e recensione
a
cura di Daniele Cambiaso
Alessandro
Defilippi, Viene la morte che non rispetta, Einaudi
L’hanno raccontata in
tanti, Genova. E, col tempo, la città ha consolidato una sua
dimensione noir che la porta a essere uno scenario perfetto per
storie criminali, di ieri e di oggi. In
fondo, è un’esperienza alla portata di tutti. È sufficiente
imboccare uno dei caruggi che dalla zona del porto si addentrano
nell’intricata casbah del centro storico, oppure abbracciare la
città intera con uno sguardo, giungendovi magari dal mare, come
consiglia Ivano Fossati. Balza immediatamente agli occhi: Genova (e
la Liguria) hanno un’anima impastata nella luce e nell’ombra,
un’anima doppia. E alle infinite sfumature dell’ombra, possiamo
ascrivere il coté criminoso di una terra che ci rivela così il
proprio volto più cupo e inquietante, ma anche sorprendente. Sì,
perché Genova è una città che sorprende sempre, sia che ne parli
una penna,
per così dire,
“indigena” (pensiamo, cogliendo fior da fiore, a Bruno Morchio,
Annamaria Fassio, Maria Masella, Marino Magliani, lo stesso De André,
autore di un noir con Alessandro Gennari), sia che ne scriva un
“foresto”.
Il
torinese Alessandro
Defilippi, di professione psicanalista, apparterrebbe di diritto a
questa seconda categoria, ma è interessante notare come nei suoi
romanzi Genova appaia ben più di uno splendido scenario per storie
ad alto tasso di tensione. Nelle sue pagine si avverte un’autentica
appartenenza, Genova diventa un luogo dell’anima, rispetto al quale
si è al contempo distanti e assai prossimi, e l’autore non solo ce
la descrive, ma se ne appropria e la scandaglia con lo sguardo acuto
dell’artista innamorato, recuperandone memoria storica e atmosfere
senza tempo. In particolare, ci racconta la Genova degli anni
Cinquanta e dell’immediato dopoguerra, in cui si muove il
colonnello Enrico Anglesio, carabiniere tutto d’un pezzo che ha
vissuto anche le pagine drammatiche della guerra civile durante
l’occupazione nazista. Già protagonista dell’eccellente “La
paziente n.9”, romanzo a tratti visionario che rappresenta un po’
il trait d’union con la precedente produzione “gotica” di
Defilippi, Anglesio era quindi tornato col racconto “Per una
cipolla di Tropea”. Con “Viene la morte che non rispetta” siamo
nell’ottobre del 1952: una serie di omicidi quanto mai efferati
insanguina il capoluogo ligure, colpendo figure apparentemente
slegate tra loro: un vecchio professore liberale che era stato
partigiano e un ex-torturatore fascista. Qual è il legame di sangue
che corre tra le vittime e il loro carnefice? Che significato ha la
strana scritta che l’assassino lascia sul luogo dei suoi delitti?
L’inchiesta di Anglesio affonda nel passato, va a toccare ferite
rimaste aperte del tempo di guerra, ma al tempo stesso fotografa una
città e una nazione sospese tra il desiderio di guardare avanti e
l’impossibilità di dimenticare ciò che stato, proprio come accade
al protagonista, ancora tormentato dal ricordo della moglie Laura,
morta suicida, ma desideroso di aprirsi a una nuova vita,
rappresentata perfettamente dalla figura di Letizia.
Su tutto domina,
appunto, l’anima di una città, svelata attraverso una scrittura
cristallina e sensuale, capace di evocare suoni, odori, sapori (non
perdetevi le gustosissime ricette!) con efficacia rara e sfumature di
autentica poesia, regalando, però, anche colpi di scena e tensione
continua, come si addice a un thriller doc. In una parola,
consigliatissimo.
Per saperne di più,
poniamo qualche domanda all’Autore…
Come è nato e chi è il colonnello Anglesio?
Enrico Anglesio è un
uomo singolare: torinese di nascita e da parte di padre, genovese da
parte della madre –una madre molto ingombrante- e trasferitosi a
Genova ancora bambino. Un mix molto pericoloso, che mette insieme le
due città più brontolone d’Italia. Così Anglesio è spesso un
barbutun, come si dice a Torino e un mogognon, come invece a Genova.
Ama il mare, i libri, il cibo e le donne, ma di questo si sente
spesso colpevole. E crede profondamente nell’amicizia. Cerca di
essere un giusto. Ma è così difficile e spesso il suo senso di ciò
che è giusto non coincide con la morale corrente.
In realtà è nato come
un controcanto a quello che doveva essere il protagonista de La
paziente n.9,
Hans Müller. E’ cresciuto a poco a poco, diventando la seconda
“voce” di quel romanzo. D’altronde, nei miei libri precedenti,
quasi sempre i protagonisti erano due. Due punti di vista, il che è
un bel vantaggio. Poi mi ci sono affezionato e così sono nati prima
Per
una cipolla di Tropea e
poi Viene
la morte che non rispetta.
Questo è forse il personaggio che maggiormente ama cucinare, tra tutti quelli che hai creato. È un omaggio a scrittori come Vazquez Montalbàn o è anche una tua passione? O tutt’e due le cose?
Non sono un lettore di
Montalban. Sono piuttosto un simenoniano e un chandleriano. E la
cucina è una passione, seppure tardiva. Mi piace la cucina
tradizionale, regionale, forte. Adoro cucinare le interiora, per
esempio. E la pasta e fagioli. Il cappon magro, il piatto che
attraversa tutto il romanzo, è uno di quelli che amo di più
preparare. E penso che per uno che lavora con le parole tutto il
giorno la cucina sia un modo straordinario di “sporcarsi le mani”.
“Viene la morte che non rispetta” è un giallo estremamente rigoroso nella concezione della trama. Si differenzia molto, a mio avviso, dalla tua precedente produzione; penso, ad esempio, a romanzi come “Angeli”, “Le perdute tracce degli dei” o “Locus Animae”, dove sembrava prevalere un gusto gotico, a tratti visionario, contaminato sapientemente col romanzo storico e con la narrativa di tensione, che già faceva capolino. Forse proprio il primo romanzo con Anglesio, “La paziente n. 9”, rappresenta il punto di passaggio tra questi due stili e di scrittura. Sei d’accordo? Come mai questo cambiamento? È una svolta definitiva?
Sono del tutto
d’accordo. Io credo di essere fondamentalmente uno scrittore
gotico, fantastico. Ciò che conta per me è il mistero, ciò che non
può essere spiegato, più che l’enigma, che una soluzione, magari
complessa, ce l’ha sempre. Ma le case editrici non amano –non ne
capirò mai il perché- questo genere, a meno che non sia
anglosassone. Comunque, non penso affatto sia una svolta definitiva.
Mi piacerebbe continuare su entrambi i registri.
Genova (e la Liguria) per te… Raccontaci di questo tuo grande amore…
Da bimbo, come la
maggioranza dei torinesi, ho trascorso molto tempo in Liguria.
Vacanze infinite, quelle, a Noli, luogo meraviglioso. Ma c’è di
più: la famiglia di mia madre era ligure, di Magliolo, sulle colline
di Pietra, dove ci sono ancora, spero, le terrazze che i miei cugini
coltivavano. Genova arrivò dopo, da adulto. Ci feci la scuola di
specializzazione in psicoterapia. E rimasi folgorato. C’è tutto:
il mare, il porto, gli odori, la commistione, la cucina di terra e
quella povera di mare.
C’è il mare, ho
detto. Quando viaggio, dopo pochi giorni sento sempre il bisogno di
vederlo. Solo quando gli sono davanti mi sento in pace.
Nei tuoi romanzi la storia contemporanea è spesso maestra di cerimonie. Il periodo del fascismo, il colonialismo, le lotte partigiane. Come mai questo sguardo sul nostro recente passato?
Ci sono tre motivi. Da
un lato mi pare che non siamo mai davvero usciti da lì: che ci
portiamo ancora tutto dietro, non risolto. Dall’altro, ho bisogno
di una certa distanza, temporale o fisica, per poter scrivere. Non ho
lo sguardo abbastanza crudele per raccontare la contemporaneità. In
terzo luogo, temo di essere un tradizionalista. Amo le osterie, non i
wine bar. Le giacche di tweed e non di microfibra.
Che cosa sono per te la lettura e la scrittura? In qualche modo si collegano alla tua professione oppure appartengono a una dimensione totalmente “altra”?
Sono sempre state il
centro, la cosa più importante. Sono stato fino a qualche anno fa un
lettore compulsivo, da più di venti libri al mese. Solo quando ho
iniziato a scrivere più regolarmente le letture si sono parzialmente
diradate. Credo che leggere e scrivere soddisfino un medesimo
bisogno: quello di vivere più vite, perché una soltanto non basta.
“Abbiamo bisogno della narrativa perché siamo condannati alla
morte”. L’ha scritto Scarlett Thomas, una giovane scrittrice
inglese. E io controfirmo.
L’altro mio mestiere
(non mi piace chiamarlo professione) è certamente legato anche alla
scrittura. Perché sia per l’analista sia per lo scrittore la cosa
centrale è la narrazione: il tentativo di dare senso. Da ragazzo
sapevo già cosa avrei voluto fare: lo scrittore e lo psicoanalista.
Sono un uomo molto fortunato.
Il tuo messaggio in bottiglia per i lettori di “Atmosfere letterarie”. E il nostro grazie per essere stato con noi…
Intanto un grazie a te,
Daniele e a chi leggerà questa intervista. Un messaggio in
bottiglia? Non smettete mai di leggere; non smettete mai di
raccontare. Non smettete mai di sperare.
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